Una spirale di sentimenti trattenuti, amori negati, slanci e fallimenti. Torna in scena un capolavoro del Novecento, nella versione precedente la censura zarista.
«Ci si potrebbe chiedere – scrive Franco Cordelli sul Corriere della Sera – va bene i classici, ma proprio Il gabbiano? A questa posso rispondere dicendo: di Cechov e de Il gabbiano non ci si stanca mai».
Non ci si stanca certo assistendo all’elegante, raffinata edizione del capolavoro cechoviano diretto da Marco Sciaccaluga. Un allestimento arioso, emozionante per questa produzione che, nel corso di una lunga tournée, torna a Genova, città che lo stesso Cechov omaggia come «meravigliosa, perfetta». Il gabbiano, com’è noto, è una struggente riflessione sulla vita e sul teatro: avvolge in una spirale di sentimenti trattenuti, di amori negati, di slanci e fallimenti il ritratto di una umanità vera, forse immutabile nel tempo. La novità dell’edizione genovese è di aver ripreso la versione del 1895, ovvero precedente alla censura zarista, nella sensibile e accurata traduzione di Danilo Macrì.
Presentando il lavoro, Sciaccaluga ha ripreso una battuta che lo scrittore Maksim Gorkij indirizzò a Cechov. Scriveva Gorkij: «Guardando il vostro teatro, bisogna essere dei mostri di virtù per amare, compatire, aiutare a vivere queste nullità, questi sacchi di trippa che siamo. A me pare che trattiate gli uomini con il gelo del demonio!». Conclude Sciaccaluga: «Credo che stia proprio lì l’essenza di Cechov. La feroce denuncia del nostro nulla, coniugata in una continua altalena di ridicolo e patetico, diventa uno stringente invito a compatire, ad amare questi esseri inutili che siamo. Il palcoscenico di Cechov è la forma più gentile, condivisa, ironica di spietatezza. Il suo “Teatro della Crudeltà” è il più “umano” che io conosca».
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