«È bene che il teatro sia sempre impuro – disse Peter Brook nel 1992, parlando a un pubblico di giovani – perché il teatro puro è spesso privo di vita». La vita, ecco il nodo: l’oggetto del lungo, straordinario viaggio del Maestro inglese nel teatro. Questo gentiluomo, classe 1925, affiancato per drammaturgia e regia da Marie-Hélène Estienne, firma una nuova creazione. Uno spettacolo asciutto, intenso, essenziale. E poetico.
Lo spettacolo evoca una condizione che è metafora esistenziale: un ragazzo, solo, seduto nel deserto davanti a una grande prigione. Cosa lo ha portato lì? Che storia ha? Quali colpe? C’è qualcuno che, dentro il carcere, lo guarda? Domande che toccano temi alti, quali la giustizia e la punizione, la colpa e l’espiazione. In quel deserto si consuma una parabola: una porta aperta dalla quale ogni spettatore può decidere cosa far entrare.
Dopo il debutto, avvenuto al Théâtre Bouffes du Nord, Peter Brook ha raccontato a Laura Putti di Repubblica: «L’ho incontrato davvero quel ragazzo, durante un viaggio in Afghanistan negli anni Quaranta. Mi aveva mandato da lui il suo maestro Sufi. Non ho mai saputo quale crimine avesse commesso, né se fosse riuscito a espiare la sua colpa. Ma il racconto ha viaggiato nella mia memoria. C’è solo uno scopo quando si agisce in quel campo misterioso che chiamiamo teatro, ed è arrivare a toccare le persone. Lo scopo è raggiunto quando qualcuno verrà toccato. C’è l’esperienza umana e quella spirituale che ti porta in un luogo senza parole». E quel luogo è, ancora una volta, il teatro di Peter Brook
Powered by iCagenda