Lo sguardo di una grande regista cinematografica scava negli inferni familiari del teatro pirandelliano, tra ipocrisia, gelosie e inaspettati cambiamenti.
«Chi è Angelo Baldovino? – si chiede Geppy Gleijeses, protagonista de Il piacere dell’onestà. Per Pirandello è “una maschera grottesca che si trasforma in un volto rigato dalle lagrime”. Basta a definirlo? Certamente no. Si potrà collegare il suo essere parossisticamente avvolto dal mistero alla natura teosofista, esoterica, spiritista dell’Autore. Ma così non si spiega nulla, forse perché nulla possiamo spiegarci. Baldovino conserva il suo mistero fino alla fine; di lui sappiamo solo che è un nobile decaduto, che giuocava… Baldovino, Enrico IV, Leone Gala, Ponza, il Padre, restano lì, in un luogo indefinito, simile a un’aula di tribunale (ossia “una stanza della tortura”) in cui non si sa chi è il giudice o l’imputato, la vittima o il colpevole. E da questo processo – ecco la vera rivoluzione – nessuno esce con una certezza: né gli attori, né il regista, né Pirandello e tantomeno gli spettatori. Il dramma non è finito, non si conclude in scena, non avrà mai fine. Non sapremo mai la verità».
Aggiunge Liliana Cavani, regista dell’opera: «Quando ho letto questo dramma ho pensato ai film di Bergman e a quelli di Dreyer che vedevo da ragazzina, coi piccoli inferni famigliari, quelli dentro la coppia. In quei film c’era sempre in sottofondo la lotta del Male contro il Bene che sembra perdere, invece poi talvolta…».
E commenta Franco Cordelli, del Corriere della Sera: «Di colpo ho percepito un senso (buono) dell’antico, del sobrio, del silenzioso. Non c’era astrazione di Pirandello che non fosse smussata dalla semplice umanità e tecnica degli attori. Non c’era rovesciamento che non fosse rimesso con i piedi per terra. Merito primo e assoluto di Geppy Gleijeses misurato allo stremo; poi di Vanessa Gravina, luminosa; e di Giancarlo Condè, parroco di sopraffina intelligenza…»
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