Venticinque anni dopo lo storico Oylem Goylem, il nuovo spettacolo di Moni Ovadia mette in scena nuove storie fra umorismo, riflessione e musica.
Ritorna su una specie di zattera il vecchio ebreo errante, con il suo carico di storie, di ricordi, di canzoni, di evocazioni, di sogni. Passati 25 anni dallo storico Oylem Goylem, Moni Ovadia, accompagnato da un manipolo di musicanti, veste i panni del narratore Simkha Rabinovich, che racconta l’eterno esilio del suo popolo. Ecco Dio ride, il cui sottotitolo, “Nish Koshe”, in yiddish significa “così così”. E forse non c’è molto da ridere, in questo mondo che ha gran bisogno di memoria, di giustizia e di pace. «La struttura – ha raccontato Ovadia in un’intervista – è la stessa di Oylem Goylem: cinque musicisti (due gitani) e un narratore che canta e dice piccole storie comiche. Ma lo spettacolo, un cabaret secondo l’accezione tedesca, è cambiato. C’è il rapporto con Dio: paradossale, al confine con l’ateismo. L’ebreo non è obbligato a credere in Dio. Lo spiega bene un racconto di Zavattini: Dio si manifesta a un uomo e gli dice “Vengo da te e solo da te per farti sapere che non esisto”. Ecco cosa intendo».
La scena è chiusa da un muro che evoca i tanti muri che ancora separano terre e genti, su cui scorrono immagini del passato e del presente. Sospeso tra commedia e tragedia, Ovadia “ride” con le sue canzoni, perché anche Dio può “ridere” di se stesso, contro ogni fanatismo e intolleranza
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